Venezia ha decine di Calli del Forner, del Pistor, del Pestrin, della Malvasia; ma anche dei Botteri, dei Lustraferi, del Tintor, del Tagiapiera; ha la Merceria, la Spadaria, la Naranzaria; sui suoi muri sono scritti i nomi di mille mestieri, fra quelli che hanno fatto la storia della Serenissima, perché lì si vendeva questa o quella merce, e vi stavano i negozi.

Solamente due calli in tutta la città, però, si chiamano “de le Botteghe”, indice del fatto che lì più che altrove vi era una grande concentrazione di rivendite di ogni genere; il che, in una città come Venezia, è tutto dire. Fra le due, quella di Santo Stefano è indubbiamente la più conosciuta e forse non è un caso se ancora oggi – nomen omen – è un piccolo paradiso resistente in un panorama di desertificazione sociale, che si traduce poi in desertificazione culturale e identitaria.

Anzi, qui più che in altri luoghi della città, per mezzo di una nemesi felice e contraria, la cultura ha trovato casa e vi si è stabilita da tempo. È una cultura che vive nel presente della città, in una continuità ideale col passato e con le pietre che formano la stessa calle, che a volerle ascoltare raccontano storie.

Come quella di Paolo Da Campo, feroce corsaro catanese che nel 1490 fu catturato da Tommaso Zen e condannato a essere confinato per sempre all’interno di Venezia, dove nel cimitero di Santo Stefano (l’attuale campiello dei Morti, che non a caso fu successivamente rialzato, quando il camposanto fu dismesso), si ritirò a fare vita da asceta: “Dorme su teste de morti, et à conzato una casa di dette teste e monti di ossi”, scriveva il cronista Marin Sanudo.

In quella stessa chiesa, poi, sotto una grande lastra di bronzo, giace il doge Francesco Morosini, conosciuto come il Peloponnesiaco per la vittoriosa campagna di riconquista dei territori della Grecia caduti in mano dell’impero Ottomano, tra il 1683 e il 1687. Non essendosi mai sposato, lasciò la sua immane fortuna ai discendenti dei fratelli, a patto che chiamassero Francesco tutti i loro figli maschi per sempre, ultimo segno d’una vanità che sfociava nell’arroganza. Il suo gatto, da cui non si separava mai, fu imbalsamato ed è tutt’oggi conservato al Museo di Storia Naturale.

Nella parallela Piscina San Samuele è ricordato da una grande lapide Francesco Querini, che vi abitava e che nel 1899 tentò l’avventura della scoperta del Polo Nord col duca degli Abruzzi, finendo inesorabilmente inghiottito per sempre dai ghiacci perenni.

Ma a guardare più indietro nel tempo – e meglio fra le pietre – si scoprirà che Calle de le Botteghe e la contigua Crosera furono a lungo fulcro della presenza tedesca a Venezia, contestuale a quella del Fontego: qui i todeschi, che avevano a che fare specialmente coi pellami, erano spesso Calegheri, ovvero calzolai, come si evince dalla lapide che in calle marca il luogo del loro “albergo” e dai capitelli di due colonne d’angolo, che mostrano dei begli esempi di calzature cinquecentesche. Non è un caso se nel 1500 Martin Lutero, nello scendere a Roma per il Giubileo (prima del celebre scisma) fece tappa a Venezia, soggiornò in questa zona e celebrò la messa a Santo Stefano (chiesa che fu riconsacrata ben sei volte per altrettanti fatti di sangue che vi capitarono all’interno, anche se qualcuno sostiene che ciò avvenne per il continuo ricomparire di tracce di sangue sul soffitto).

Nei pressi di questa calle infine, verso il Canal Grande, nacque Giacomo Casanova; tra queste pietre crebbe e si formò; fu fatto abate e rinunciò alla tonaca, conobbe i suoi primi amori e diede inizio alla sua leggendaria vita da avventuriero. Queste calli erano casa sua. Poteva girare ogni corte europea, combattere duelli, amare gli amori più esotici; ma qui tornava a passeggiare, dove i primi affetti lo avevano circondato di attenzioni.

Pochi come i veneziani sono legati alle pietre di casa. BAC Art Studio torna nella zona di Santo Stefano dopo oltre vent’anni dall’ esilio al di là del Ponte dell’Accademia a San Vio. Ed è come un ritornare a casa.

 

Alberto Toso Fei